Ne abbiamo parlato con il pedagogista Maurizio Parente
“Il ragazzo dai pantaloni rosa” non è solo un film ma qualcosa di più. Un cazzotto che ti colpisce allo stomaco un’opportunità di riflessione. Tratto dalla vera storia di Andrea Spezzacatena, quindicenne vittima di bullismo e cyberbullismo omofobo, che si tolse la vita il 20 novembre 2012, il film porta alla ribalta un fenomeno con cui purtroppo, ogni giorno, dobbiamo fare i conti. Secondo infatti l’Osservatorio indifesa 2024, realizzato da Terre des Hommes, insieme a OneDay e alla community di ScuolaZoo, che ha coinvolto oltre 4.000 ragazzi e ragazze tra i 14 e i 26 anni, il 65% dei giovani dichiara di essere stato vittima di violenza e tra questi il 63% ha subito atti di bullismo e il 19% di cyberbullismo. Dati importanti che sicuramente ci fanno riflettere e che fanno del film di Margherita Ferri un messaggio per i giovani e per tutti i genitori, per questo ne abbiamo parlato con il pedagogista Maurizio Parente che ci ha aiutato a comprenderne il valore e a darne interessanti e differenti letture.
“Il film è molto interessante perché affronta tematiche delicate e sempre più all’ordine del giorno; problematiche che coinvolgono famiglie e insegnanti di fronte alle quali manchiamo spesso di strumenti preventivi efficaci. Un fenomeno che colpisce tutti: ragazzi e ragazze, bambini e bambine, perché ormai il bullismo ha esordi sempre più precoci. Il film, con il suo linguaggio cinematografico, semplice e diretto rappresenta un modo per sensibilizzare non solo le generazioni più giovani, ma anche gli adulti (genitori e insegnanti), i quali – oggi giorno – sembrano distanti da un’attenzione seria ai processi di cura e educazione emotivo-affettiva di bambine/i, ragazze/i. Viviamo in un contesto sociale che isola sempre di più le famiglie costringendole a vivere esperienze di solitudine relazionale ed emotivo-affettive che hanno ripercussioni anche sui vissuti dei figli. Eppure se pensiamo al passato non è difficile constatare come i genitori di oggi sembrino molto più attenti alla cura dei figli, per i quali non esitano a mettere in campo qualsiasi strategia per evitare loro anche la più piccola frustrazione. Si adotta qualsiasi forma di protezionismo non comprendendo che anche le esperienze meno piacevoli possono essere fonte di crescita e apprendimento.
Forse – e dico forse – proteggere i propri figli non significa evitare loro di vivere ma “gettarli” nella vita, ossia fare in modo che siano vita.
Ricordiamo che Andrea – protagonista del film – è un adolescente che sembra giungere a questa fase con pochi strumenti emotivi e relazionali per affrontare le sfide evolutive che lo attendono. È un ragazzo fragile e “senza pelle”, dotato di grandi risorse cognitive ed emotive che hanno “funzionato” sino al momento del salto evolutivo, ma che improvvisamente risultano inadeguate, insufficienti e incapaci di orientarlo nel decodificare il nuovo mondo. Le sue parole lo definiscono come immaturo, impreparato e al tempo stesso “adultizzato”: intrappolato tra l’essere un bambino da cui si deve necessariamente separare e un ragazzo competente, capace, forte e vincente per far fronte alle istanze di una famiglia in crisi e alle incoerenti richieste del mondo dei pari. Un ragazzo che vuole vivere la propria vita ma che non sembra avere gli strumenti giusti per poterlo fare a pieno.
Chi è allora Andrea? Una vittima? Quando si parla di bullismo diventa difficile parlare di vittima al singolare, forse è più utile parlare di soggetti che si trovano incastrati in un meccanismo pericoloso in cui tutto l’ecosistema sociale ha una responsabilità.
Il film offre quindi un utile spunto di riflessione per tornare a pensare al modo in cui ci occupiamo dei figli e a come la politica e la società si occupano delle famiglie per renderle sempre più partecipi di una comunità che si prende cura di loro”.